Monday 15 September 2008

Blu come il Blues


Dedicata ad Isabel, a John e ad Albert.

E' consigliata la lettura con questo sottofondo musicale.



Miriam ha le mani a conca, per coprire la faccia, per sostenerla. Un dolore cupo si sta trascinando via tutti i suoi sentimenti, lasciando il cuore a battere, da solo. Ha appena avuto una notizia orribile, una notizia a cui stenta a credere.
Si tira su con le lacrime che le scedono sulle gote, tenta di tenere lo sguardo fisso negli occhi della persona che ha davanti ma non ci riesce.
O almeno, questo è quello che immagino io. Non so niente della notizia che ha appena ricevuto la ragazza che sto guardando, non so nemmeno se si chiama Miriam, ma per la canzone che sto suonando adesso lei è Miriam e sta piangendo perchè al posto di suo marito ha trovato un letto vuoto.
Il tintinnio di una monetina mi risveglia, giro la testa e vedo una signora anziana che ha voluto essere gentile, le faccio un sorriso, chino il capo, guardo per un attimo la finestra che stavo guardando prima e noto che Miriam non c'è più. Sento il vento che fa muovere le foglie della quercia che mi sta dietro. Inizio a cantare.
Oggi sono tre anni che suono Blues di fronte a quest'ospedale. E' facile, traggo ispirazione dalle persone che vedo passare e improvviso quello che mi viene in mente su di loro.
Iniziai poco dopo la morte di Anna, ero talmente abituato a venire a trovarla ogni giorno appena staccato dal lavoro che il dover rimanere a casa rendeva le mie pene ancora più grandi, più sottolineate, più cattive.
Dovevo fare qualcosa, non dormivo mai, stavo perdendo il lavoro, iniziando a bere, lasciandomi andare. Così decisi di riprendere in mano la vecchia chitarra. Si rivelo una cura perfetta, non avevo dimenticato tutto, ero solo un poco arrugginito e riniziare fu facilissimo, mi misi a capofitto a suonare scale e giri. gli esercizi mi tenevano impegnato e non mi permettevano di rimanere fermo a soppesare le colpe e a contrapporle ai cosa avrei dovuto fare. Eppure stare in casa mi intristiva. Per quanto mi concentrassi sulle canzoni sentivo le ombre cadermi addosso, pesanti.
Avvenne un giorno, per caso. Era stata una giornata particolarmente faticosa, era un giorno afoso e avevamo dovuto catramare il soffitto di un capannone in costruzione. Ero nero, sporco, stanco, con le gocce di sudore che mi scintillavano sulla carne per quanto cercassi di asciugarmele. I polmoni mi facevano male, forse per ricordarmi cosa avevo inalato tutto il giorno. L'illuminazione mi venne a fine giornata, dopo essermi cambiato, dopo che uscì dal deposito, molto dopo.
C'era un paesaggio stupendo e si stava benissimo, il sole stava tramondando, nell'aria c'era una piacevole calura serale e il fieno lanciava lunghe ombre per tutto lo sterminato campo che mi stava davanti. Il cielo era un misto di colori, rosa e azzurri si mischiavano e le poche nuvole stanche sembravano dirigersi all'orizzonte come se fosse il letto su cui riposarsi. Sentì una stretta allo stomaco e mi ricordai che avevo la chitarra nel retro del mio furgone. Salutai gli altri e mi avviai verso casa.
Guardavo la strada ma era come se non la vedessi, pensavo ad Anna, a come mi mancava la sua pelle, il suo odore, tutto di lei. Pensavo a Milly e a Dean, i nostri discorsi, i nostri sorrisi, cose sparite tempo fa. Non so per quale motivo ma sentì di dovermi fermare. Avevo fame. Dopo essere rimasto un attimo in silenzio tolsi le chiavi dal cruscotto, aprì la portiera e scesi dal furgone. Me lo ricordo come fosse ieri. Notai che c'era troppa terra sul tappetino e mi ripromisi di dare una lavata al furgone appena potevo. E' strano come mi ricordo ogni particolare di quella scena tranne le parole. Ricordo i miei pensieri, i miei gesti, il colore della terra secca dove poggiai i piedi, il suono della porta quando la aprì, il mio sguardo nel decidere lo sgabello sul quale avrei potuto sedermi; Sgabelli neri e alti, gran parte dei quali vuoti, posti vicino ad un bancone di mogano, probabilmente. Prima di sedermi scelsi il panino che volevo, poi ci ripensai, non mi sedetti e me lo feci incartare; No, forse ricordo male, prima ordinai il bicchiere e poi mi feci incartare il panino. Comunque non importa, alla fine stavo seduto al bancone con un panino caldo tra le mani e metà bicchiere di Whisky che mi teneva lontano la fame e la necessità di azzannarlo subito.
Guardai la cameriera, era giovane e bella, oddio, forse non era bella ma aveva un modo di muoversi che la rendeva affascinante anche leggendo sulla sua faccia la stanchezza, la voglia di andarsene da quel posto il più presto possibile e forse un briciolo di coscienza che già si era convertito all'idea che non ce l'avrebbe mai fatta.
Mi chiesi cosa stavo facendo, sarei dovuto tornare a casa di corsa a provare i pick up nuovi di Susy, la mia chitarra. E invece..guardai il cartellino della cameriera, un cartellino bianco con una scritta nera un pò sfocata che era attaccato al grembiule. Isabel. Mi sembrava un volto familiare, ma non riuscivo a ricordarmi perchè. Le chiesi qualcosa, probabilmente se non l'avevo già vista prima. Non mi ricordo la sua risposta e non mi ricordo come venne fuori ma subito dopo la conversazione sapevo di essere dall'altra parte della città, vicino all'ospedale tra l'altro. Come era possibile? Anche se avevo guidato sovrappensiero, facevo la stessa strada per tornare a casa da più di dieci anni, e poi, quando mi ero fermato, come avevo fatto a non rendermi conto? Scolai il mio whisky e mi venne l'illuminazione. Mi guardai intorno, Isabel stava spolverando i tavoli e gli altri clienti non mi badavano, feci un rapido calcolo, lasciai una cosistente mancia, oltre al dovuto, e uscì intascandomi il bicchiere.
Poco tempo dopo ero qua dove sono ora, con il bicchiere per terra, Susy a tracolla e una strana sensazione. feci un sospiro, diedi due pacche al bordo di palissandro di Susy e attaccai il mio repertorio. Rimasi lì fino a dopo che se n'era andato il sole, suonando Albert King, Bo Diddley, Buddy Collins, Howlin' Wolf, Steve Ray Vaughn, Blind Lemon Jefferson, B.B.King, Muddy Waters, Johnny Winter, Robert Johnson e infine il mio preferito, John Lee Hooker, senza alzare mai gli occhi da terra, con foga e passione, animo, groove e tristezza.
Ormai non uso più quel bicchiere ma continuo lo stesso a fare quello che feci quella notte.
Da tre anni, appena staccato di lavorare, vengo qui davanti e suono blues fino a quando non tramonta il sole, suono solo canzoni mie adesso, canzoni inventate lì per lì, per confortare me stesso, chi entra e chi esce.
E come quel primo giorno, da tre anni, io, Donald Kane, a fine giornata, due volte alla settimana, raccolgo tutte le monete che ho guadagnato in quei giorni, vado dal fioraio accanto all'entrata, compro tutti fiori bianchi che posso comprare e una rosa rossa; Faccio in modo che ci sia sempre almeno un fiore bianco fresco per ogni stanza dell'ospedale. E ogni sera, prima di avviarmi verso casa, mi giro, poso la rosa alla base della quercia di fronte alla quale canto e do la buonanotte ad Anna.